"Ciao, come stai?"

La buona abitudine che i manager dovrebbero avere con i collaboratori

Condividere le proprie emozioni con gli altri è una delle cose che ci rende umani. Gli esseri umani sperimentano una vasta gamma di emozioni, alcune delle quali, come la vergogna, la colpa e l’empatia, sono particolarmente complesse e influenzano profondamente il comportamento sociale. L’empatia e le relazioni sociali non possono prescindere dal contesto in cui si trovano, quindi anche a lavoro, e influenzano il nostro modo di operare e la produttività.

La capacità di comprendere e condividere i sentimenti degli altri e di formare relazioni sociali strette (o meno) è cruciale per la cooperazione e la costruzione di comunità.

Un insieme di regole non dette a lavoro fa sì che nel ruolo in cui passiamo la maggior parte del nostro tempo abbiamo instaurato un regime limitato di emozioni “socialmente accettabili” nel contesto lavorativo.

Il nostro cervello ha imparato a verificare lo stato di chi ci circonda prima ancora di fare qualsiasi cosa. Le emozioni che tratteniamo mandato continuamente input di disponibilità, di sicurezza, di paura, di fiducia, ecc. Dobbiamo sapere se siamo al sicuro, se quindi chi abbiamo davanti non rappresenta una minaccia, se si prenderà cura di noi, ecc.

Questo costante controllo del territorio non è consapevole: avviene in automatico attraverso segnali invisibili ed è un radar potente di emozioni in entrata e in uscita.

Grazie al linguaggio sappiamo dare un nome alle cose e quindi siamo in grado di conoscerle meglio e ci sanno dare delle spiegazioni.

Ciò che ci rende fragili e allo stesso tempo ci rende unici e capaci di trasformarci nel cambiamento e liberi di immaginazione sono le emozioni.

Una ricerca della Harvard Business School dimostra che esiste un gap di aspettative tra manager e dipendenti. I manager considerano il dare un supporto emotivo come un gesto “gentile” che prescinde dal loro ruolo manageriale, i dipendenti invece lo considerano parte integrante del lavoro di un manager.

Per comprendere e gestire le emozioni sappiamo che corrispondono una serie di set di competenze chiamate le soft skills dell’intelligenza emotiva.

Anche sul luogo di lavoro sono consentite tacitamente, non serve regolamentarle ma anzi, come detto abbiamo sdoganato l’idea che la capacità di gestirle sia un elemento di forza, soprattutto se si vogliono coordinare delle persone.

La ricerca di Harvard fa un nella direzione dell’Emotional Working che apre realmente le porte a nuove abitudini, e lo fa rassicurando i manager che:

  • Qualunque tipo di interessamento verso l’emozione che si intravede nel proprio collaboratore, soprattutto se si tratta di un’emozione spiacevole, ha l’effetto di produrre un aumento di fiducia.
  • Questo è vero anche se e quando l’interessamento “fallisce”. Ad esempio, se ad esso non segue l’attesa dose di attenzione o se dimostra di aver rilevato l’emozione sbagliata.
  • La fiducia nella relazione cresce perché, a prescindere dall’efficacia dell’intervento del manager, il collaboratore percepisce il costo che quel gesto ha per lui/lei e lo apprezza in quanto tale.

È ormai vitale prenderci cura gli uni degli altri, organizzare meglio il tempo e avere gli strumenti giusti per il benessere lavorativo. Occorre aprirci coraggiosamente verso relazioni che considerino il bisogno di essere visto interamente che ognuno di noi ha per poter “stare bene”.

Ecco perché riteniamo importante che il manager e anche l’imprenditore si prenda cura delle proprie risorse in azienda chiedendo “come stai?” e interessandosi davvero allo stato emotivo. Dall’altra parte è importante investire nelle competenze relazionali e di intelligenza emotiva: la rottura dei confini spaziali tra vita e lavoro non può riguardare solo la nostra razionalità, devono entrarci veementemente anche le emozioni e possono essere un grande punto di forza.

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